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Un bilancio di 10 anni di dittatura Usa-Nato

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di Patrizia Fiocchetti C.I.S.D.A. da Confronti.net
A ottobre la guerra in Afghanistan «compirà» dieci anni. Quante vittime, soprattutto civili, hanno pagato il prezzo di questa campagna di occupazione occidentale? E quali obiettivi sono stati raggiunti? Incontro con Samia Walid, militante dell’organizzazione afghana Rawa, che si batte per i diritti delle donne.
In Afghanistan si combatte una guerra mai dichiarata. In Italia i rappresentanti politici, ipocritamente, continuano a definire l’intervento nel Paese centro-asiatico come una missione di peace keeping. Ma in Afghanistan si muore, ogni giorno e in quasi tutte le sue 34 province. Muoiono i militari delle forze Nato. Ma muoiono soprattutto i civili e di loro non si fa la conta che, invece, si tiene per i caduti delle forze di occupazione, come preferisce definirle il popolo afghano. Vengono uccisi dai bombardamenti indiscriminati degli aerei militari occidentali, che colpiscono matrimoni, bambini che si trovano in mezzo ai boschi, interi villaggi. Le vittime sono soprattutto loro: donne, anziani, bambini. Vittime collaterali di una vera e propria guerra, dove in realtà gli interessi in gioco, fin dall’inizio, sono stati ben altri. Basta guardare i risultati sul terreno. Il prossimo ottobre, ricorreranno i dieci anni di questo assurdo conflitto, durato già un anno in più rispetto a quello in Vietnam – dove però gli Usa erano da soli – e in molti si chiederanno che cosa si è ottenuto in questo lungo periodo, e se gli obiettivi sbandierati all’inizio della campagna di occupazione da parte delle forze occidentali siano di fatto stati raggiunti. A maggio è venuta a Roma Samia Walid, donna afghana di appena 30 anni, militante dell’organizzazione Rawa (Associazione delle donne afghane rivoluzionarie), che ha presenziato ad una serie di convegni, tra cui un incontro all’università La Sapienza. Rawa è un’associazione democratica, fondata nel 1977 a Kabul da Meena Keshwar Kamal. Pur essendo nata per il riscatto dei diritti delle donne e il riconoscimento della loro parità, a seguito dell’invasione sovietica, l’associazione cambiò il proprio obiettivo primario, che divenne la lotta per la liberazione del proprio Paese dall’occupazione straniera. La battaglia di Rawa si è protratta in tutti questi trent’anni, in cui ha fatto della denuncia dei signori della guerra, che hanno insanguinato e dilaniato il Paese dopo la cacciata dei sovietici e che tutt’ora siedono all’interno del governo e del parlamento afghano, il proprio compito più importante. La lotta contro ogni tipo di fondamentalismo, che vede come vittime principali proprio le donne, è stata ed è ancora adesso durissima: nel 1987 a Quetta, in Pakistan, dove era riparata, agenti dei servizi segreti afghani con l’appoggio di elementi fondamentalisti, uccidevano Meena; oggi, a dispetto della sbandierata «democrazia» che si sarebbe raggiunta in Afghanistan, Rawa opera in clandestinità. La sua voce è troppo scomoda per gli assassini, i criminali e i mafiosi che si sono suddivisi, grazie al sostegno degli Stati Uniti e degli alleati occidentali, il potere politico nel Paese. Con Samia, quindi dal punto di vista di una cittadina afghana, abbiamo fatto un bilancio di quanto accaduto in questi dieci anni, di quanto è cambiato per il suo popolo dal 2001 ad oggi. «La situazione – ci dice – è decisamente peggiorata. Le aspettative di democrazia, pace, sicurezza, diritti delle donne, rispetto dei diritti umani con cui si è giustificata l’occupazione, sono state tutte ampiamente disattese con risvolti drammatici per le donne e gli uomini afghani, sotto tutti i punti di vista». L’intervento militare, si era detto, avrebbe dovuto riportare la sicurezza nel Paese, sconfiggendo i talebani e i qaedisti legati a Bin Laden. «In realtà – prosegue – si è ottenuto ben altro: più dell’80% dell’Afghanistan è controllato dalle fazioni talebane, che nel mentre, per misurarsi con un nemico fornito delle armi più sofisticate, è ricorso alle azioni kamikaze, estranee alla tradizione guerriera afghana. Gli Stati Uniti utilizzano sempre più i bombardamenti aerei, cercando di limitare le proprie perdite sul campo di battaglia, ma mietendo vittime tra i civili inermi». Come è successo a metà maggio nella provincia settentrionale di Takhar, dove l’ennesimo raid aereo ha ucciso quattro persone di cui due donne. La manifestazione di protesta, seguita a questo ennesimo eccidio, è stata repressa violentemente: 12 i morti e 85 i feriti. Ma armati dagli occidentali sono anche i signori della guerra, i Mujaheddin dell’Alleanza del Nord, che dal 1992 al 1996 si sono affrontati spietatamente, trascinando il Paese nel baratro del terrore e della distruzione. «A causa di questi criminali – racconta ancora Samia Walid, parlando degli uomini attualmente al potere – il Paese nel 1996 è finito in mano ai talebani. Gli occidentali per il futuro dell’Afghanistan hanno pensato bene di sostenere questi figuri, che ora siedono all’interno del governo Karzai, la marionetta americana, e del parlamento afghano. Questi personaggi si sono macchiati di violazioni indicibili: stupri, eccidi di massa… dovrebbero rispondere di crimini contro l’umanità di fronte a un tribunale internazionale. E invece i loro supporters occidentali, Stati Uniti in testa, li hanno sdoganati davanti agli occhi delle loro opinioni pubbliche come i rappresentanti della democrazia in Afghanistan. Ma ci può essere democrazia reale in un Paese se non si riconoscono i diritti delle vittime?». Tra le mani dei warlords afghani passano i miliardi di dollari che l’Occidente riversa da 10 anni a questa parte nel Paese per la cosiddetta ricostruzione. «Ma quale ricostruzione? Basta andare a Kabul per rendersi conto di che fine hanno fatto e continuano a fare i soldi della ricostruzione. È una vera e propria mafia, quella gestita dalle ong afghane e internazionali, paragonabile alla mafia del traffico di droga, con cui si arricchiscono anche i contingenti stranieri; e quella dei latifondi, che vede capi clan afferenti a uno dei gruppi di potere impadronirsi di ettari e ettari di terra per poi sfruttarli con speculazioni di edilizia privata». Secondo Walid, tra il 40 e il 60% dei fondi torna in tasca ai Paesi donatori, tra stipendi e profitto d’impresa. Un’altra percentuale la prende il ministro a cui viene affidato il progetto di ricostruzione. «Molti ministri afghani – spiega sempre Samia Walid – hanno tutti una loro ong personale, chiaramente a nome di qualche loro famigliare, a cui appaltano la realizzazione del progetto. Ma, a sua volta, la ong che non ha mezzi e capacità necessarie la subappalta a una società privata. Quindi, di passaggio in passaggio, forse l’1% del totale rimarrà per il progetto vero e proprio». Il tessuto istituzionale afghano, dalle sue più alte cariche giù fino all’ultimo dei dipendenti, è corrotto: l’Afghanistan è diventato dopo l’occupazione occidentale il secondo Paese corrotto al mondo dopo la Somalia. In un contesto di insicurezza, ingiustizia, in assenza di democrazia, le donne continuano ad essere vittime. «La questione della donna è una tematica politica che si inquadra all’interno del contesto generale afghano. Le donne sono state vittime dei crimini perpetrati in questi trenta anni di guerra e continuano ad esserlo. Bambine di 12 anni, e anche più giovani, subiscono stupri, alcune volte anche di gruppo, da parte di uomini legati ai signori della guerra o a governatori di province e distretti, che per questo non incorreranno nella macchina giudiziaria, anch’essa corrotta e controllata. D’altra parte, negli ultimi anni il governo Karzai ha varato leggi volte a colpire i diritti delle donne: la legge contro le donne della comunità sciita nel 2009; la re-introduzione del Ministero per il vizio e le virtù di talebana memoria, nel 2006; la decisione lo scorso gennaio di portare sotto il controllo governativo gli shelter (rifugi) per donne maltrattate con l’accusa di essere covi di prostituzione, ma con lo scopo di accaparrarsi i fondi per la loro gestione». Dunque un fallimento in Afghanistan? «Lo abbiamo ripetuto più volte, il governo americano non vuole che libertà, democrazia e diritti delle donne trovino patria in Afghanistan. È disposto ad instaurare un governo corrotto e anche più anti-democratico di quello attuale. Il vero intento è arrivare a mantenere il controllo del Paese senza la
presenza di un proprio contingente militare, una sorta di “irachenizzazione”». Come in altri teatri di occupazione, gli Stati Uniti sono riusciti ad esasperare le divisioni etnico/religiose, frammentando a tal punto il sistema istituzionale da renderlo ingovernabile a livello centrale, corrotto in maniera endemica ma assolutamente funzionale ai reali obiettivi americani: penetrazione geo-strategica attraverso l’implementazione delle basi militari; controllo delle riserve di idrocarburi fossili presenti nel sottosuolo del Paese, ma ancora non sfruttate; creazione di vie alternative per le ricchezze energetiche delle Repubbliche centro-asiatiche. «Per questo, la formazione della Consultive Peace Jirga, la commissione preposta ai colloqui di riconciliazione con i talebani, è stata incoraggiata dagli Stati Uniti. Risponde ai propri desiderata. È stata una scelta dettata da logiche che fanno parte del modus operandi degli Stati Uniti e dei suoi alleati occidentali: mai appoggiare le forze democratiche che esistono all’interno di un Paese perché la tensione all’indipendenza non gioverebbe agli interessi perseguiti». Ma formazioni democratiche sono attive all’interno dell’Afghanistan e vitali, per quanto osteggiate e sempre a rischio di ritorsioni e repressione. «Certo è un embrione. Il processo democratico apertosi nella seconda metà degli anni Sessanta – conclude Samia Walid – è stato interrotto dalla guerra contro i sovietici, quindi è estremamente giovane. Ma opera in tutto il Paese, attraverso gli strumenti dell’informazione, la formazione, pubblicazioni, organizzando il malcontento della popolazione in manifestazioni e sit-in. Perché quello che la gente vuole, tanto per cominciare, è il ritiro di tutte le truppe straniere dal Paese. Quindi, l’interruzione di qualsiasi tipo di appoggio, militare ed economico, ai criminali che siedono nel governo Karzai. A quel punto rimarrebbero due nemici: i signori della guerra e i talebani. Non sarà facile, nessuno lo dice, ma sarà il popolo afghano ad affrontarli e a determinare il proprio percorso verso la democrazia»
Samia Walid:
«La situazione  è decisamente  peggiorata.  Le aspettative  di democrazia, pace,  sicurezza, diritti  delle donne, rispetto  dei diritti umani  con cui si è giustificata  l’occupazione,  sono state tutte  ampiamente  disattese con risvolti  drammatici  per le donne  e gli uomini afghani,  sotto tutti  i punti di vista».

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