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Afghanistan. Sotto il tappeto di menzogne della guerra americana – 2

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Osservatorioiraq – 24 Aprile 2013 di Anna Toro

Sono passati oltre 11 anni da quando Bush ha deciso di andare a cercare Bin Laden sulle montagne afghane, dando inizio all’occupazione del paese. Ma ne sono passati molti di più da quando gli Usa hanno messo gli occhi sul gasdotto trans-afghano TAPI: secondo alcuni la vera ragione dell’invasione.

L’argomentazione giuridica utilizzata da Washington e dalla Nato per invadere l’Afghanistan in base alla “dottrina della sicurezza collettiva” era che gli attentati dell’11 settembre 2001 avevano costituito un non dichiarato “attacco armato”, “dall’estero”, da parte di un potere straniero senza nome.

L’invasione è diventata poi occupazione, il cui scopo dichiarato era quello di cacciare i “terroristi” talebani dal paese.

Ma, come spesso accade, la campagna post -11 settembre è servita a nascondere i veri obiettivi della guerra Usa-Nato, che non sono certo nuovi: la conquista di una posizione chiave nello scacchiere globale e il controllo delle risorse.

L’Afghanistan, infatti, è da sempre riconosciuto come un punto strategico in Asia centrale: al confine con l’ex Unione Sovietica, la Cina e l’Iran, è soprattutto un crocevia delle principali rotte di oleodotti e gasdotti della regione.

Per non parlare della ricchezza del sottosuolo, tra minerali e riserve di gas naturale non ancora sfruttate, che sono state scoperte di recente. O quasi.

Perché, se tutto questo è rimasto sconosciuto all’opinione pubblica americana, di certo non lo era per il Pentagono: la ricchezza del sottosuolo afghano era infatti descritta nei minimi dettagli già nei rapporti geopolitici sovietici.

Molti Stati hanno già iniziato a investire sulle miniere, come Cina e India. Ma a far gola all’America è soprattutto il gas.

 

Il braccio di ferro dei gasdotti

Il “sogno – geopolitico – americano” in Afghanistan si chiama TAPI, ovvero il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India.

Un progetto da 8 miliardi di dollari, lungo 1700 chilometri, che dovrebbe trasportare il gas naturale turkmeno attraverso l’Afghanistan, in quello che viene descritto dagli stessi Usa come un “corridoio di transito cruciale”, dal bacino del Mar Caspio al Mar Arabico.

Sostenuto dall’Asian Development Bank (ADB), il TAPI ha il potenziale per trasportare 3,2 miliardi di metri cubi di gas al giorno dai giacimenti del Turkmenistan, passando vicino alle città di Herat e Kandahar, attraversando il Pakistan vicino a Quetta e collegandosi con i metanodotti di Multan, nella regione del Punjab pakistano.

Gli Stati Uniti avevano propagandato il progetto come “collante magico” che avrebbe legato le diverse aree (spesso in attrito), in un quadro di cooperazione interdipendente: “Oltre a isolare ulteriormente l’Iran – si legge in un documento del 2011 dell’Institute of Asian Studies – l’interdipendenza risultante e i benefici della cooperazione potrebbero fungere da catalizzatore per la pace tra India e Pakistan”.

Ovviamente le aziende a stelle e strisce sarebbero state i maggiori beneficiari dell’eventuale accordo.

Ma anche l’Iran, il grande nemico, ha da tempo il suo asso nella manica: il gasdotto IP (Iran-Pakistan), progetto sostenuto da Russia e Cina, e che originariamente includeva anche l’India. Quest’ultima si è poi ritirata nel 2009, apparentemente preoccupata per il prezzo e per la sicurezza, ma in realtà a causa della dura opposizione degli Stati Uniti.

Chi non si è fatto intimorire dalle pressioni americane è stato invece il Pakistan, che è rimasto dentro al progetto IP e nel 2010 ha firmato l’accordo, in base al quale l’Iran gli dovrà fornire circa 21,5 milioni di metri cubi di gas al giorno per 25 anni. L’intesa è estensibile per cinque anni e i volumi possono salire anche a 30 milioni di metri cubi al giorno.

Lungo 1.100 chilometri, il gasdotto IP dovrebbe essere completato entro il dicembre 2014, ragione in più che ha convinto il Pakistan, in piena e grave crisi energetica, a non tirarsi indietro.

E se anche Islamabad ha dichiarato il proprio supporto a entrambi i progetti, in Afghanistan si teme che il TAPI fallisca. Per il paese sarebbe un colpo economico durissimo.

In realtà questo braccio di ferro tra i gasdotti IP e TAPI, da semplice battaglia economica è diventata una questione dalle dimensioni e conseguenze geopolitiche enormi.

L’analista pakistano Salman Rafi Sheikh lo definisce la nuova versione del “Great Game”, il conflitto sotterraneo che nel XIX secolo contrappose Gran Bretagna e Russia in Medio Oriente e in Asia centrale, con l’Afghanistan al centro delle mire di tutti i governi.

Oggi come allora, controllare l’Afghanistan significa assicurarsi una posizione perfetta per stabilire una nuova sfera di influenza nell’intera regione che si estende in tutta l’Asia centrale, e dal Mar Nero al Mar Caspio.

Con il vantaggio, per quanto riguarda gli Stati Uniti, di avere i “nemici” vicini sotto controllo e di poter mettere le mani sui ricchi corridoi energetici.

Le ragioni di una guerra

Tuttavia, l’accesso a queste risorse e il controllo delle loro rotte di esportazione non è possibile per qualsiasi potenza extra-regionale senza avere una forte presenza militare in loco.

E l’Afghanistan è stato l’unico paese della regione che ha fornito agli Stati Uniti un pretesto per l’invasione.

Non a caso, il giornalista del San Francisco Chronicle, Frank Viviano, nel 2009 ha scritto: “La mappa dei santuari e degli obiettivi in Medio Oriente e Asia Centrale del terrorismo è anche, ad un grado straordinario, una mappa delle fonti principali del mondo nel XXI secolo”.

Per non parlare del fatto che la maggior parte delle basi americane costruite in Afghanistan si trova lungo tutto il percorso del TAPI.

Secondo gli analisti pakistani Ikramul Haq e Huzaima Bukhari, infatti, gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO avrebbero deciso di invadere l’Afghanistan molto prima dell’11 settembre.

Nel 2000 avevano nominato l’afghano Zalmay Khalilzad, ex funzionario della compagnia petrolifera americana Unocal, come inviato speciale nel paese. “Khalilzad – scrivono – era intimamente coinvolto nei lunghi sforzi degli Stati Uniti per l’ottenimento dell’accesso diretto alle risorse di petrolio e gas della regione, in gran parte inesplorate, secondo lui le più grandi al mondo dopo quelle del Golfo Persico”.

In qualità di consulente per la statunitense Unocal, già nel 1997 Khalilzad aveva partecipato ai colloqui tra la società petrolifera insieme alla Bridas Corporation argentina e i funzionari talebani, proprio per la messa in pratica dell’accordo sul gasdotto TAPI, già stipulato nel 1995 (visto che il gasdotto doveva passare attraverso l’Afghanistan, era necessario negoziare con i talebani allora al potere).

Ma gli stessi talebani, che erano stati supportati dagli Usa durante la cacciata dei sovietici dall’Afghanistan, dopo la fine della guerra avevano voltato la schiena agli interessi di coloro che li avevano aiutati a vincere, rifiutando il percorso del gasdotto.

Le ragioni della guerra, secondo molti analisti, affondano qui.

E se c’è chi parla delle solite “teorie del complotto” non si può comunque negare che questi fatti siano avvenuti: a dimostrarlo ci sono gli accordi, i documenti, gli articoli della stampa. In Iraq non è andata molto diversamente.

“Quando i talebani si sono insediati in Afghanistan – scrive ancora Rafi Sheikh – gli Stati Uniti speravano che avrebbero continuato a servire i loro interessi, compresa la costruzione di oleodotti e gasdotti per le compagnie petrolifere statunitensi Unocal e Delta”.

Ma i negoziati con i talebani sul tracciato del gasdotto sono falliti nel 2001, poco prima dell’attacco alle Torri gemelle.

Da qui, l’invasione. E con la strada per la costruzione del gasdotto sgomberata, e la nomina del governo ad interim di Karzai, i vari capi di Stato hanno potuto avviare gli incontri per finalizzare il progetto TAPI.

Finale di partita aperto

Ad oggi, la ribellione talebana in Afghanistan non è stata domata, e più di 130.000 truppe straniere permangono sul suolo afghano.

L’attentato dello scorso aprile, costato la vita a sei civili il giorno dopo l’arrivo a Kabul del nuovo Segretario della Difesa degli Stati Uniti, Chuck Hagel, ha dimostrato ancora una volta che, nonostante il rafforzamento della sicurezza, gli attacchi degli “insorti” possono ancora raggiungere l’obiettivo.

Neppure Al Qaeda è stata sconfitta, visto che dall’Afghanistan si è spostata in Pakistan, e non solo.

Eppure, nel 2014 la coalizione internazionale guidata dagli Usa andrà via.

Lo chiamano “ritiro”, ma si tratterà probabilmente di una riduzione delle truppe, e consiglieri e funzionari americani  rimarranno sul territorio afghano.

Perché in Afghanistan il “grande gioco” non è ancora finito.

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