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Afghanistan. La chiamata alle armi dei signori della guerra

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Rinascita, 14/11/2012, di Ferdinando Calda

In questi giorni il New York Times ha riferito che uno dei più potenti signori della guerra dell’Afghanistan, Ismail Khan, sta chiamando alle armi i suoi sostenitori nella provincia di Herat, suo feudo, per “difendere” il Paese dai talibani dopo il ritiro dei militari stranieri. Una mossa che sembra essere seguita anche da altri, ma che ha innescato diverse polemiche a Kabul, dove alcuni deputati hanno chiesto la procedura di impeachment contro Khan, ex governatore di Herat e attualmente ministro dell’Energia e delle risorse idriche.

Secondo il quotidiano statunitense, questo mese l’influente signore della guerra ha radunato migliaia di suoi sostenitori nel deserto fuori Herat, capoluogo dell’omonima provincia occidentale, esortandoli a riorganizzare le proprie reti di combattenti e a trovare nuove reclute. Fonti governative della provincia di Herat hanno dichiarato alla tv afgana Tolo che il cosiddetto “Consiglio per il jihad” di Herat, creato lo scorso anno e guidato da Khan, avrebbe già cominciato a distribuire le armi ai suoi membri. “Sulla base degli ordini ricevuti da Ismail Khan abbiamo già inaugurato tra le 30 e le 40 unità di mujaheddin, con i rispettivi comandanti”, ha confermato la scorsa settimana il numero due del Consiglio per il jihad, Khuwaja Shamsuddin, smentendo tuttavia la distribuzione (illegale) di armi.

“Noi siamo responsabili per il mantenimento della sicurezza nel nostro Paese, e non lasceremo che l’Afghanistan venga nuovamente distrutto”, ha dichiarato lo stesso Khan in una conferenza stampa indetta lo scorso fine settimana nel suo ufficio di Kabul. Nel corso della conferenza, Khan ha comunque assicurato che lui e i suoi uomini “non si stanno ribellando contro il governo”. Piuttosto vogliono aiutare esercito e polizia di Kabul in quelle “zone del Paese in cui le forze governative non possono operare”.

Assicurazioni che non sono bastate a tranquillizzare i critici, che temono l’ascesa dei “boss” locali a spese del debole governo centrale, che rischia il collasso una volta terminato il sostegno straniero. “Il governo afgano e la popolazione afgana non vogliano gruppi armati al di fuori delle strutture legittime delle forze di sicurezza”, si è affrettato a chiarire il portavoce del presidente Hamid Karzai, Aimal Faizi. Mentre il governatore della provincia di Herat, Dawd Shah Saba, ha definito illegale l’operato di Khan.

 

Ma il ministro dell’Energia non è l’unico veterano dell’Alleanza del Nord (la coalizione anti-talibana guidata dal celebre Ahmad Shah Massud) a guardare alla formazione di milizie in vista del ritiro straniero e del ritorno dei talibani. “Se le forze di sicurezza afgane non sono in grado di combattere questa guerra, allora bisogna affidarsi ai mujaheddin”, ha dichiarato a settembre il vicepresidente afgano Muhammad Qasim Fahim.
Tagiko come Khan, Fahim è stato ministro della Difesa ed è accusato da diverse ong di essere coinvolto in traffici di droga. “Tutti tentano di avere un piano B”, ha chiosato Ahmad Zia Massud, fratello del comandante Massud, facendo presente che in molti si stanno riarmando. “Tutti vogliono avere un AK-47 in casa”, ha sottolineato il tagiko, facendo notare come il prezzo di un Kalashnikov sia passato dai 300 dollari di dieci anni fa ai mille attuali.

Ismail Khan: “Gli stranieri ci hanno levato le armi e portato le donne”
Il tagiko Ismail Khan, classe 1946, è stato una delle figure di spicco nella resistenza contro i sovietici e poi contro i talibani. Si stima che potesse contare su un esercito di 25mila uomini. La sua base di potere è nella provincia occidentale di Herat, al confine con l’Iran, dove ancora oggi mantiene una forte influenza e dove sembra sia spesso in contrasto con l’attuale governatore Daud Shah Saba. Dopo l’invasione statunitense nel 2001 è stato nominato governatore della provincia, da dove era stato cacciato dall’arrivo dei talibani. Nel 2004 è stato sostituito dal presidente Karzai. Una decisione che scatenò la reazione violenza dei suoi sostenitori. Apparentemente apprezzato dagli stranieri – italiani in testa – quando era governatore, non sembra ricambiare questa sentimento. Diverse ong lo indicano come uno dei mujaheddin più radicali (specialmente nelle sue posizioni contro le donne) e lo accusano di violazioni dei diritti umani. Il New York Times riporta di un video girato il primo novembre durante una riunione appena fuori Herat (in un quartiere chiamato “Città dei Martiri”, fondata da Khan negli anni ‘90 per dare alloggio e terra alle famiglie dei mujaheddin caduti in battaglia) nel quale si vede Khan che critica duramente “gli stranieri” per aver disarmato e “messo da parte” i combattenti. “Hanno raccolto i nostri cannoni e carri armati e li hanno trasformati in un mucchio di spazzatura – ha dichiarato – In cambio hanno portato ragazze olandesi, tedesche, statunitensi e francesi. Hanno portato i soldati bianchi dall’Europa e soldati neri provenienti dall’Africa, nella speranza di pacificare l’Afghanistan, ma hanno fallito”.
 
I talibani e Karzai: “Dopo il ritiro non ci sarà il caos”
Un mese fa, quando un rapporto del think tank International Crisis Group (Icg) mise in guardia sul rischio di un collasso dell’Afghanistan dopo il ritiro della Nato, i talibani definirono “irreali” le previsioni di una nuova guerra civile. “La situazione che ci sarà quando la Nato avrà abbandonato il Paese non è paragonabile a quella che c’era negli anni ‘90 quando si ritirarono i sovietici”, hanno affermato i talibani in un comunicato, dove annunciavano anche di aver un “piano per rendere possibile una intesa inter-afgana e per la consultazione di religiosi, leader nazionali, intellettuali, studenti, società civile e responsabili della jihad”. Anche il governo di Kabul (non riconosciuto dai talibani come interlocutore in quanto “manipolato” dagli “invasori”) definì “infondati” i timori del rapporto. Tuttavia, considerate le notizie che arrivano dal Paese, queste dichiarazioni rischiano di essere unicamente il frutto di due distinte propagande.

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