Skip to main content

È QUESTO L’8 MARZO A KABUL

|

di Camilla Mantegazza, da Letteradonna

foto pezzo kabulIn Afghanistan la Giornata Internazionale della Donna ha un sapore particolare, fatto ancora di diritti negati e disumanità. Il racconto di Camilla, nel Paese con l’associazione Cisda.

Ci accoglie un grande hotel di colori, specchi e geometrie Anni ’80. L’8 marzo organizzato da Hambastagi, il Partito della Solidarietà, l’unico partito democratico dell’Afghanistan, si celebra qui. La sala è colma di donne, non un burqa ma tanti sguardi affranti. Ci sono anche numerosi uomini, questo ci conforta. Non mancano le famiglie, i figli, la speranza per il futuro.

A Kabul non c’è nulla da festeggiare, ci dicono le tante donne venute da lontano, tra paura e impedimenti. Nella provincia afghana di Paktia le bambine si sposano a partire dai sette anni, con un prezzo che varia in base alla loro bellezza, istruzione, verginità. Il 19 marzo 2016, Farkhunda Malikzada è stata uccisa dalla folla nei pressi del santuario Shah-e Du Shamshira, dopo essere stata falsamente accusata di aver bruciato una copia del Corano, per protestare contro la vendita di quelle che noi chiamiamo indulgenze.
Un tribunale di primo grado ha condannato quattro uomini per il suo omicidio, mentre altri hanno ricevuto pene detentive.

A luglio, la corte di appello ha annullato le quattro condanne a morte. Nella provincia di Badakhshan, ad agosto, una donna accusata di adulterio è stata impiccata dai talebani, nel corso di un processo tribale. Qualche mese dopo, un’altra è stata bruciata in un mercato, sotto gli occhi di tutti. 15 minuti per morire, senza nessuna condanna per il colpevole. E così via, in un vortice senza fine. È questo l’8 marzo.
Selay Ghaffar, portavoce e leader di Hambastagi, prende la parola. Sicura, nella sua folta chioma nera, in una giacca occidentale, in contrasto con i classici vestiti afghani, ampi, colorati, a volte troppo modesti: «Il tradimento, l’offesa perpetrata dagli americani e dai governi succeduti è stato ridare poteri a quei signori della guerra che in tutta la loro esistenza non hanno fatto altro che negare i diritti delle donne, tacendo la violenza e rifiutandone i diritti. Le donne vengono ancora torturate, lapidate, date alle fiamme». Sullo schermo passano immagini raccapriccianti di donne violentate, malmenate, prese a sassate con una disumanità ormai consueta. È questo l’8 marzo.

 

La Giornata Internazionale della Donna è anche la lotta di Selay, che non ha paura a togliersi il velo in un’intervista televisiva, davanti a chi, rappresentante del partito di Gulbuddin Hekmatyar, la definisce una prostituta musulmana, che passa le notti divertendosi con i suoi padroni. La colpa è quella di aver dato voce alla popolazione afghana, oppressa, disoccupata, analfabeta. E stanca. Stanca di 40 anni di guerra, di corruzione, di analfabetismo e paura. «La rivoluzione della società afghana passa dalla famiglia», interviene Wali Khan, difensore dei diritti umani. «Sono le famiglie le protagoniste del futuro. Mutando i rapporti che intercorrono oggi tra moglie e marito, si avrà la possibilità di cambiare la società. E sperare in un futuro migliore, per le nostre figlie». Selay corre via, non ha tempo per i saluti di rito. Si copre il volto, una macchina e la sua scorta l’aspettano. Devono portarla al sicuro. Le sue parole mettono in pericolo la sua vita, e quella di suo figlio. È questo l’8 marzo.

Il traffico è impazzito. Anche per le forze governative oggi è giorno di festa, come per tutte le donne e uomini riuniti in questo grande hotel blindato. Mentre noi celebriamo l’8 marzo, la lotta di tutte le donne nei secoli passati, loro celebrano Marshal Fahim, grande signore della guerra e noto trafficante di droga, scomparso il 9 marzo del 2014. La città è bloccata. La tensione è nell’aria. Ad una manciata di chilometri, un gruppo di assalitori armati di kalashnikov e granate ha fatto irruzione nell’ospedale militare di Kabul, uccidendo 50 persone e ferendone altrettante. La firma, questa volta, è di Daesh. «Ma qual è la differenza?», ci dicono tante donne. Gli attentatori, vestiti da medici, sono morti. È questo l’8 marzo, a Kabul.

L’appello è alla solidarietà internazionale. Selay chiede alla delegazione italiana di non lasciare sole le donne afghane, di sostenerle nella lotta per la loro indipendenza ed emancipazione. È questo che fa il CISDA (Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane), da ormai 18 anni. Deve essere questo l’8 marzo, in tutto il mondo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *