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Donne afghane: Dove fuggire? Il rapporto Human Rights Watch

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Da: Unità.it

Sì, perché la condizione, già drammatica, delle donne in Afghanistan, sta ancora peggiorando insieme all’inasprirsi della guerra e dell’insicurezza. Passo dopo passo, le leggi tradizionali non scritte, che colpiscono le donne si affermano a scapito delle leggi che dovrebbero proteggerle.

Una donna 300x250Halima è costretta a sposarsi a 12 anni con un uomo molto più vecchio, alcolista, drogato e violento. Picchia lei e le sue due figlie per anni, quotidianamente. Una sera le botte del padre fanno saltare tutti i denti della bambina e Halima decide di scappare. Una storia molto simile a quelle che abbiamo raccontato ma con un finale, purtroppo, diverso. Halima non sa niente delle ‘case rifugio’, né delle donne che si battono per i suoi diritti, non sa nemmeno di averli. Sa solo che deve scappare per salvare la pelle sua e delle figlie. La polizia, dopo qualche mese, la trova, il marito l’accusa di ‘fuga da casa’ e di zina, adulterio, con il parente che l’ha aiutata. È condannata a sette anni di prigione che sta ancora scontando, insieme alle persone colpevoli di averla soccorsa.

La fuga dall’orrore finisce dietro le sbarre. Molto spesso. Lo testimonia l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, uscito alla fine di marzo e intitolato “Dovevo scappare”, sulla carcerazione delle donne per ‘crimini morali’. Una dettagliata indagine, condotta in tre prigioni femminili e tre centri di detenzione minorile. Fuggire la violenza, le percosse, le bruciature, le frustate, gli stupri, un matrimonio precoce e forzato, la minaccia di morte, la prostituzione, è un azzardo, con poche possibilità di riuscita. Alcune di queste donne, spesso ragazzine, si sono rivolte alla polizia in cerca di protezione. Hanno invece trovato accuse, minacce, umilianti visite mediche.

 

E da vittime si sono ritrovate colpevoli, condannate alla prigione. Possiamo appena immaginare lo smarrimento di una simile scoperta. La stessa sorte tocca, la maggior parte delle volte, anche alle donne che hanno subito uno stupro o la prostituzione forzata e che trovano il coraggio di denunciare. Sono loro ad essere perseguite invece dello stupratore, colpevoli di zina, anche loro, la spada di Damocle sulla loro testa. Di ‘crimini morali’ sono accusate la metà delle donne rinchiuse nei carceri afghani e la totalità di quelle recluse nei carceri minorili.

L’angosciosa ricerca di salvezza, che segue la fuga, ha pochi sbocchi. Parenti e conoscenti si tirano indietro per paura di essere coinvolti, minacciati, incarcerati o uccisi dai suoi parenti. I padri, spesso, le rifiutano, la polizia, il più delle volte, le condanna. L’ultima porta chiusa è quella della prigione. Ma anche la fine della pena è un momento drammatico. Le opzioni sono solo due, raccontano le donne intervistate da HRW: tornare dal marito responsabile degli abusi e vivere con i figli oppure andarsene e perderli per sempre. Molte scelgono la prima strada, ricominciando da capo il loro tormento, probabilmente peggiore di prima. Essere state in galera per ‘crimini morali’ è una macchia terribile per una donna, una condanna che dura per sempre. E che espone al rischio del ‘delitto d’onore’, ancora diffuso in Afghanistan, soprattutto nelle province, e mai denunciato. Paradossalmente, alcune donne affermano di sentirsi più sicure in carcere che a casa loro. Almeno lì nessuno le aggredisce.

COLPEVOLI DI COSA?
Eppure la fuga da casa non è un crimine per il codice penale afghano. Ma la Suprema Corte di Giustizia, formata da retrogradi e misogini fondamentalisti, ha ben istruito i suoi giudici, una magistratura corrotta, inefficace e obbediente alle intimidazioni di gruppi armati fondamentalisti. La consegna è quella di trattare da criminali le donne che osano lasciare il tetto coniugale. Quello che sotto quel tetto succedeva non li riguarda. È facile, basta l’accusa di adulterio che è punibile, per la legge afghana, con una pena fino a 15 anni di reclusione. ”È davvero shoccante- afferma Kenneth Roth, direttore esecutivo di HRW- che, a dieci anni dalla fine del regime talebano, donne e bambine afghane siano ancora imprigionate per aver fuggito la violenza domestica o un matrimonio forzato, illegale secondo la legge. Una pratica abusiva e discriminatoria.”
Tutte le donne intervistate hanno denunciato gravi violazioni dei diritti umani ma nessuno dei colpevoli è stato perseguito, nemmeno un’indagine. La parola di una donna non vale niente. Racconta Parwana, 19 anni, scappata dalla violenza del marito e della suocera: “ Odio la parola ‘marito’. Il mio fegato è nero per colpa sua. Ma se avessi saputo tutto quello che mi sarebbe successo, la prigione e il resto, invece di chiedere aiuto alla polizia, mi sarei buttata nel fiume per suicidarmi.”

SBARRE LEGALI
Il sistema giudiziario sembra costruito contro le donne, cancelli che sbarrano la strada a ogni tappa, spiega HRW nel rapporto. Basta una denuncia, o anche solo una protesta del marito, perché la polizia arresti la moglie. I procuratori non tengono alcun conto degli elementi di prova che appoggiano la dichiarazione d’innocenza delle donne. I giudici, poi, le condannano spesso solo sulla base di una ‘confessione’, estorta senza la presenza di avvocati e firmata senza essere letta, perché le accusate sono analfabete.
La legge, adottata dall’Afghanistan nel 2009, sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, fa della violenza domestica un crimine. Ma poliziotti, procuratori e giudici che si danno da fare, con zelo ammirevole, per condannare le donne di ‘crimini morali’ ignorano completamente l’evidenza degli abusi di cui le stesse sono state vittime. Mentre le donne passano anni, spesso con i figli piccoli, dietro le sbarre, i colpevoli di quei crimini vanno in giro liberamente o scontano pene irrisorie. “I più orribili abusi inflitti alle donne- racconta Kenneth Roth- sembrano provocare nei procuratori niente di più che un’alzata di spalle.” Per le donne che vivono gli stessi abusi, il messaggio è chiaro: se cerchi aiuto nelle autorità troverai la prigione. Un potente effetto deterrente. Anche il divorzio, facilissimo per un uomo, per una donna è sempre più difficile, ce lo raccontano spesso le avvocate di Hawca. Riformare queste leggi, in favore dei diritti delle donne, è un impegno che il governo afghano ha preso nel 2007. Una commissione di esperti ha redatto un progetto di legge sul diritto di famiglia più favorevole alle donne. Legge sospesa dal governo dal 2010. Nessun segno, nessuna mossa verso la sua adozione.
Con queste procedure il governo afghano viola i suoi obblighi verso gli accordi internazionali sui diritti umani. ”Il governo afghano e i suoi partners internazionali dovrebbero agire con la massima urgenza- conclude il rapporto- per proteggere i diritti delle donne e evitare il ritorno al passato. Il presidente, gli USA e gli altri attori sul terreno afghano dovrebbero finalmente rispettare le belle promesse che hanno fatto alle donne afghane dieci anni fa, mettendo fine agli arresti per ‘crimini morali’ e mettendo in pratica il loro coinvolgimento dichiarato a favore dei loro diritti.” Ma, per ora, i cambiamenti di rotta non si vedono. Anzi.

GLI ‘SHELTERS’, L’UNICO PORTO SICURO
Le ‘case rifugio’ restano l’unica via d’uscita, l’unica reale protezione, per le fortunate che riescono a raggiungerli. Aumentarne il numero e l’efficienza, anche per le ex detenute, è un’altra delle raccomandazioni del rapporto. Sono pochi e non tutti sicuri come quelli di Hawca, dove le donne, una volta prese in carico, non sono mai abbandonate. Il governo si era impegnato a fondarne alcuni sotto il suo controllo. Ma, per ora, non è successo niente. A quanto pare, l’unico rifugio offerto alle donne dal loro governo sono le carceri. Invece, i centri di aiuto diminuiscono.

Hawca, come altre ONG, ci racconta Selay Ghaffar, è in gravi difficoltà economiche. Molte delle donne del progetto ‘vite preziose’ sono riuscite a trovare la salvezza attraverso i Centri di Aiuto Legale. Funzionavano benissimo e a pieno ritmo. Tutti chiusi, adesso, tranne quello di Jallalabad. E anche lo shelter va avanti con molte difficoltà e non si sa fino a quando. Non ci sono più soldi. I donatori internazionali che li sostenevano si sono ritirati, per la crisi e per cambiamenti di rotta nelle loro politiche. I fondi per lo sviluppo sono sempre più spesso sotto il controllo dei militari, che hanno, evidentemente, altre priorità.

Per tutti questi motivi il nostro progetto è diventato, adesso, ancora più importante. Il sostegno da persona a persona va dritto al suo scopo e garantisce, almeno a venti donne, la vita e la speranza. Sanno di essere state fortunate e vogliono, tutte, far arrivare ai nostri lettori la loro immensa gratitudine.

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