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Io, che ho studiato grazie a 10 stivali, difendo i diritti delle donne afghane e sogno di pedalare per le strade di Kabul

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di Rohina Bower – 27esimaora.corriere.it – 17 Luglio 2016

rohina 300x200Rohina, devi lavorare molto più duramente dei fratelli. È molto più difficile per te, ma ti ho iscritto a scuola. Un giorno torneremo nel nostro amato Paese e dovremo avere qualcosa per ricostruire la nostra patria

Mi chiamo Rohina Bower, ho 27 anni e sono di Kabul, da un anno lavoro con Cospe e Hawca (Humanitaria assistance for the women and children of Afghanistan) su un progetto in difesa degli attivisti e dei diritti umani. Mi occupo principalmente di comunicazione ma anche di coordinare i vari focal point che lavorano nel progetto nelle diverse province afghane.

La mia storia? Purtroppo simile a quella di miei molti coetanei: sono nata a Farah, una provincia nell’est del paese. Sono la più grande di quattro fratelli e una sorella. Ho vissuto come immigrata per 16 anni in Pakistan e 4 in Iran. Abbiamo avuto una vita molto difficile come molti altri rifugiati afghani. Era molto difficile per un immigrato afghano studiare in una scuola, avere un’educazione nelle scuole iraniane.

Era praticamente proibito in Iran, per gli afghani, andare a scuola; ma mio padre, un uomo istruito, laureato in chimica all’università di Kabul durante l’occupazione russa, voleva che noi avessimo un’educazione. In quel periodo faceva il commerciante e vendeva scarpe per donne in un negozio iraniano. Guadagnava poco ed era difficile anche comprare il latte per mio fratello piccolo. Ma mi ricordo ancora che per farmi accettare come studentessa regalò 5 paia di stivali alla direttrice della mia scuola. Dopo molte insistenze, alla fine mi presero. Mio padre a quel punto mi disse: «Rohina, devi lavorare molto più duramente dei fratelli. È molto più difficile per te, ma ti ho iscritto a scuola. Un giorno torneremo nel nostro amato Paese e dovremo avere qualcosa per ricostruire la nostra patria».

 

Io ho lavorato duro ed è per questo che, tornata a Kabul, mi sono laureata prima di tutti i miei compagni, con due anni di anticipo, in geologia. Era il 2014. Nel 2015 ho cominciato a lavorare con Cospe. Questo lavoro l’ho voluto con tutte le mie forze: stavo rientrando a casa dopo aver portato curricula a varie associazioni; mentre passavo dalla strada della sede di Hawca, ho visto l’insegna e mi sono precipitata dentro. «Questo è quello che voglio fare», mi sono detta: lavorare con le donne, con la società civile, con gli attivisti e le attiviste donne. Voglio essere utile.

Pur essendo laureata in scienze geologiche, ho capito strada facendo di voler lavorare in altro ambito, quello dei diritti delle donne. Fin da piccola, infatti, ho sentito la reale sofferenza, ho avvertito il grido di dolore delle donne afghane, il loro bisogno di sostegno e assistenza per riuscire a superare un dolore insopportabile, ed andare avanti. In Afghanistan, infatti, quasi tutte le donne sono destinate a essere vittime di casi di violenza estrema. Per essere al loro fianco, avevo già fatto la volontaria in alcune organizzazioni per i diritti umani, per le quali lavoravo come insegnante e assistente psicologa in diversi orfanotrofi e centri protetti.

Nel gennaio 2013, mentre ero alle prese con dei difficili esami di scienze della geologia, ero rappresentante di un’unione di 500 studenti universitari afghani impegnati ad abbattere le discriminazioni contro le ragazze afghane che provavano a frequentare l’università, diritto che nella nostra cultura non è riconosciuto. Ho partecipato a numerose conferenze organizzate da donne sul tema della partecipazione femminile alla vita politica e ai processi decisionali, ho portato a termine con successo un corso sui rapporti con i media tenuto dalla Idlo (International Development Law Organization). Sempre con Idlo, ho fatto un viaggio studio in India, intrapreso per osservare e apprendere i metodi sostenibili che possano garantire un lavoro dignitoso alle donne dei centri.

Oggi che il mio sogno di lavorare stabilmente in un progetto così bello e importante come Ahram (Afghanistan Human Rights Action and Mobilisation) si è realizzato, ne condivido con voi un altro, che vi sembrerà una piccola cosa, ma vi fa capire come anche qualcosa di piccolo qui sembra a volte irrealizzabile: ho sempre sognato di avere una bici e di pedalare tutti i giorni tra le strade di Kabul. Ero al quarto semestre, e in quel periodo frequentavo il dipartimento di idrometereologia all’Università di Kabul. Un giorno, sulla via per l’università, vidi un negozio di bici e decisi di comprarne una tutta mia. Mi fermai, quindi, e chiesi al negoziante quanto costava una bici. Immediatamente quest’uomo mi lanciò uno sguardo strano e, corrugando la fronte, mi chiese perché ero interessata. Gli ricordai allora che avevo semplicemente chiesto il prezzo, ma lui mi rispose con rabbia che non me l’avrebbe mai venduta, né a me né a nessun altra ragazza. «Perderei la mia reputazione con gli altri negozianti se vendessi bici a delle giovani». Risposi senza perdere la calma, cercando di usare l’astuzia, e sostenendo che la bici non era per me ma per mio fratello. Chiesi nuovamente quanto costava. La sua risposta fu sbalorditiva: «Oh, ma perché non l’hai detto subito? Tremila afghani». A quel punto dissi anche che dovevo provare l’altezza e feci un giro sulla bici! Un momento di pura felicità e libertà! Mi piacciono le bici rosa e spero un giorno di poterne comprare una, per questo ho riempito la mia stanza con immagini di biciclette. Questa è una piccola cosa; ma in Afghanistan le donne non hanno accesso alle cose più semplici, dalla bici all’istruzione, se non con molta fatica.

Io credo in un mondo senza discriminazioni contro le donne. Il mio obiettivo è lavorare per il mio Paese, soprattutto per le donne e le ragazze, e insieme rompere questo sistema di tabù che governa l’Afghanistan. Per questo lavoro ogni giorno, accanto a persone coraggiose che difendono le donne e i diritti umani. Spero di aver cominciato a ripagare mio padre dei suoi sacrifici e delle umiliazioni subite per potermi permettere di andare a scuola, tanto tempo fa, in Pakistan. E spero di essere utile finalmente al mio amato e devastato Paese.

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