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Vite preziose: i nostri lettori con le donne afghane

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Cristiana Cella, 31 ottobre 2012, L’Unità

1278579234 2 300x119Connettere, costruire reti. Non solo virtuali. Reti reali, concrete, di cittadini italiani che si uniscono per sostenere altre reti di cittadini, in questa o in altra parte del mondo. Per affiancarli nella comune lotta per i diritti umani e la legalità. È questo che stiamo facendo. E quando le persone si uniscono, al di là di stati, governi e istituzioni, per qualcosa che gli sta a cuore, sono davvero efficaci e cambiano le cose.

ECCO COME PARTECIPARE

In occasione della sua presenza in Italia, Selay Ghaffar, direttrice esecutiva di Hawca e portavoce della società civile afghana, ha potuto incontrare, a Roma, nella redazione del nostro giornale, e a Milano, nella sede del Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), alcuni dei lettori che sostengono “Vite Preziose” come molti altri che, purtroppo, non hanno potuto partecipare.

Per informazioni scrivete a vitepreziose@gmail.com

Sono persone che, come tutti, oggi, combattono con la crisi economica e con i loro problemi personali ma che non ci si chiudono dentro. Lasciano aperta la porta all’altro, a chi sta peggio e ha meno armi per combattere per la vita. Straordinaria è la creatività solidale che si è scatenata, con intelligenza e condivisione, in questi incontri.

L’emergenza mondiale della violenza contro le donne è, in Afghanistan, una violenza di sistema, esasperata dalla guerra, che, a dispetto delle leggi dello Stato, si autogiustifica legalizzando la brutalità: nelle case, nelle comunità, nelle scuole, per la strada, nei posti di polizia, nei tribunali, nelle istituzioni.

 

Ci riguarda, perché da 11 anni siamo lì, anche se se ne parla sempre meno, perché lì muoiono i nostri soldati, sparano le nostre armi, si spendono i nostri soldi. Pochi sanno chi sono le persone che ci vivono, com’ è la loro quotidianità, cosa pensano e per cosa lottano.

Selay parla del suo lavoro con sincerità, dei complessi problemi che, insieme alla sua équipe, deve affrontare ogni giorno, delle vittorie e della frustrazione delle sconfitte. E l’ascolto si trasforma subito in una gara di proposte, in ricerca di soluzioni. Parla degli infiniti problemi medici che le donne, protette nelle«case rifugio», portano con loro. Elisabetta, medico del Gemelli di Roma, organizzerà dei consulti a distanza, con i suoi colleghi specialisti, via Skype, per chiarire le diagnosi dubbie, per decidere le cure più appropriate.

Selay racconta il lavoro delle avvocate, nelle «case protette» e nei Centri di Aiuto Legale, aperti nel 2007, che seguono le donne in tribunali dominati dal fondamentalismo islamico, cercando di ottenere un divorzio o la custodia dei figli, di avere giustizia, condannando i colpevoli e non le vittime, come purtroppo accade ogni giorno.

Ragazze che frequentano l’Università pubblica, di basso livello, perché non hanno la possibilità di iscriversi a migliori scuole private. Che devono mantenersi lontano da casa. Giuliana, avvocato, propone di coinvolgere l’Ordine perché i nostri avvocati sostengano queste ragazze nei loro studi, nella rischiosa e difficile pratica quotidiana.

I Centri Legali, intanto, fondamentali luoghi di soccorso, quest’anno hanno dovuto chiudere per mancanza di fondi. Così, la Ong italiana Cospe, che sostiene Vite Preziose, sta preparando un progetto per il Ministero degli Esteri Italiano, perché nel prossimo anno possano essere riaperti e continuare a difendere le donne dalle leggi tribali, uguali per tutte, feroci. A Laura non basta occuparsi di Nelofar, vuole fare qualcosa in più, di pratico, è disponibile a qualsiasi compito.

Elisa lancia l’iniziativa natalizia «Un tè per una donna afghana» nel negozio di un’amica. Luciana e Giovanni sono sponsor di una bimba che combatte con la sua malattia al cuore da anni. Un problema che si potrebbe risolvere stabilmente con un’operazione. Non si può fare in Afghanistan, dovrebbe andare all’estero, e il costo non è indifferente, 3000 dollari.

Ma i nostri lettori non si sono scoraggiati e stanno facendo una colletta tra amici e conoscenti, per pagarle l’operazione, o in Italia o in India. Poi, una domanda semplice, fatta da Alessandra, mette in luce un problema, di cui Selay non parla mai. «Come pagate il vostro lavoro, gli stipendi?» «Siamo nate dal volontariato e dobbiamo arrangiarci». Risponde, sorridendo.

Così, Alessandra decide di condividere un’eredità che ha ricevuto e aiutare Hawca, sostenendo chi sostiene, le persone e i costi del loro lavoro, con una generosa cifra mensile per 10 anni. Alessandra è lettrice del nostro giornale da molti anni e, da tempo, cercava un progetto che le desse fiducia. Lo ha trovato. Le donne di Hawca potranno contare su di lei.

Infine, Selay condivide con noi la sua angosciosa impotenza, il racconto di una storia finita male. Perché, a volte, le donne che chiedono aiuto non possono aspettare. Bisogna intervenire subito per salvare la loro vita, con cure immediate e costose. Ma per farlo, servirebbe un «fondo di emergenza» a disposizione. Un fondo che non c’è e che nessuna organizzazione internazionale prevede di stanziare.

Rona è giovane, arriva da Nemroz, con il padre, un contadino che ha appena di che far mangiare la famiglia, una volta al giorno. Disposto a tutto pur di aiutare la figlia, massacrata dal marito. Le ha strappato un occhio, le unghie, ha ferite gravi alla testa. È stato il Ministero degli Affari Femminili a mandarlo da Hawca. Mettono in moto tutti i loro contatti. I Centri Legali si danno da fare per trovare il suo aguzzino, che, nel frattempo, è scappato in Iran. Ma, prima di tutto, bisogna curarla. Decidono di mandarla in India, dove gli ospedali pubblici sono disponibili ad aiutarle.

Procurano passaporti e visti per padre e figlia, che non ha nemmeno la carta d’identità. Non sono pratiche veloci, lì. Ma non è finita, ci vuole un documento, da un ospedale pubblico, per certificare l’impossibilità di curarla nel suo paese. È un iter complicato, ce la fanno in una settimana. È tutto pronto ma le Nazioni Unite non possono fare niente, non hanno fondi per questo genere di casi, proveranno a cercarli. Intanto il tempo passa e cresce la rabbia del padre della ragazza, giustificata sicuramente. Le donne di Hawca non si arrendono. Decidono per una colletta tra le colleghe e i colleghi e tra le operatrici delle UN che conoscono. Riescono a raccogliere 1200 euro.

Può bastare almeno per iniziare le cure, soprattutto per salvare l’occhio. Ma ormai è passato un mese e l’uomo ha perso la speranza. È scomparso, con la sua furia disperata, chissà dove. Di lui e della figlia non ci sono più notizie. Giovanni propone di «adottare» un fondo di emergenza. Cristina e Roberto di interessare una grossa organizzazione umanitaria che conoscono. Forse è al di sopra delle nostre possibilità ma chissà che non si trovi una soluzione anche per questo.

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