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Afghanistan: perché Trump e Harris non parlano del disastro USA

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Inside Over, 16 settembre 2024, di Samuel Botti

Il dibattito presidenziale tra Donald Trump e Kamala Harris ha spostato l’equilibrio elettorale per coloro che ancora non riuscivano a prendere una decisione. Tra le varie tematiche trattate però, una in particolare non è riuscita a ritagliarsi lo spazio necessario per fornire risposte esaustive: il ritiro delle truppe in Afghanistan.

Pochi giorni prima del duello, è stata pubblicata un’indagine repubblicana intitolata Willful Blindness, realizzata con l’obiettivo di attribuire all’amministrazione Biden la vera colpa di ciò che avvenne nel 2021, guidata dal presidente della Commissione Affari esteri della Camera, il texano Michael McCaul. «Biden e la sua vice hanno tratto in inganno e, in alcuni casi, mentito direttamente al popolo americano in ogni fase del ritiro», ha commentato McCaul, affermando che questo argomento non è altro che una «macchia» sull’amministrazione democratica.

Il rapporto di oltre 350 pagine è stato subito commentato negativamente dall’ala dem che, dopo aver pubblicato il proprio minority report sull’indagine durata 18 mesi, ha accusato i repubblicani di averli esclusi dall’inchiesta e di aver scelto la politica anziché la ricerca della verità. Inoltre, i democratici accusano l’amministrazione Trump di aver preso accordi direttamente con i talebani, passando sopra il Governo afghano, e di aver imposto una tempistica irrealistica, creando conseguenze inevitabili per coloro che avrebbero guidato la Casa Bianca successivamente.

Nonostante le accuse da entrambe le parti, la responsabilità del ritiro che ha condotto nuovamente il territorio dell’Afghanistan nelle mani dei terroristi è bipartisan.

Barack Obama e la forever war

La forever war, come viene definita negli States, cambiò volto con l’ascesa del democratico Barack Obama che, una volta insediatosi alla Casa Bianca nel 2009, promise di «distruggere, smantellare e sconfiggere la rete di Al Qaeda in Pakistan e Afghanistan, e impedire loro un ritorno futuro». Questa dichiarazione, pronunciata in un discorso il 27 marzo 2009, segnava il ritorno di un’importante presenza militare a Kabul. Infatti, nel 2010 si contavano all’incirca 100mila soldati statunitensi presenti sul territorio del dari e del pashtu. La svolta significativa arrivò il 2 maggio 2011, quando le truppe americane scovarono e uccisero il leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, nascosto ad Abottabad, in Pakistan.

La caccia grossa a Obama poteva dirsi conclusa, e così si decise di iniziare un moderato ritiro delle truppe dai territori, con l’obiettivo di instaurare relazioni diplomatiche e di cedere il controllo alle forze locali – addestrate dallo Zio Sam – entro il 2014, per poi lasciare definitivamente il paese nel 2016. Il piano fu realizzato a metà: le truppe americane terminarono formalmente le operazioni militari e trasferirono i compiti alle forze locali. Rimasero circa 10mila soldati con lo scopo di addestrare gli afghani e di combattere i “rimasugli” di Al Qaeda. Tuttavia, nel 2017, nell’ultimo anno del mandato Obama, le truppe Usa erano ancora lì.

C’erano Trump, Biden, e i talebani

La palla passò a Donald Trump, con l’istinto iniziale di ritirarsi dall’Afghanistan, tramutato dopo poco tempo nella decisione di continuare a combattere per evitare la creazione di un nuovo insediamento terroristico, subito dopo la partenza delle truppe.

The Donald e il suo staff iniziarono i negoziati direttamente con i talebani nel 2018, fino ad arrivare alla firma dell’Accordo di Doha il 29 febbraio 2020. Ancor prima di scoprire quali fossero le condizioni del negoziato, l’amministrazione Trump viene aspramente criticata per aver trattato direttamente con i talebani, escludendo il Governo afghano e di conseguenza indebolendo la sua già bastonata figura istituzionale. Le giustificazioni che arriveranno saranno che i talebani rifiutano categoricamente il Governo, soprattutto se si parla di inserirlo in un negoziato. Inoltre, il fine mandato e una possibile rielezione erano alle porte, e negoziare direttamente con i talebani avrebbe generato un intervento più rapido, evitando così la burocrazia governativa.

L’Accordo prevedeva un ritiro graduale delle truppe statunitensi e delle forze NATO entro 14 mesi dalla firma, con una riduzione iniziale da circa 13.000 a 8.600 soldati entro 135 giorni. Il ritiro completo doveva avvenire entro il 1° maggio 2021. Tuttavia, per mantenere la sicurezza su quanto stabilito, il tycoon chiese ai talebani di interrompere i legami terroristici con Al Qaeda, ridurre la violenza contro le forze afghane e americane durante il ritiro, e non permettere che l’Afghanistan fosse utilizzato come base per attacchi contro gli States e i suoi alleati. Purtroppo, la fiducia riposta nei loro confronti fu più di quanto ci si potesse aspettare. La condizione finale prevedeva uno scambio di prigionieri tra il governo afghano e i talebani, liberando 5000 talebani e 1000 governativi.

I piani cambiano il 20 gennaio 2021, quando Joe Biden diventa il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. L’amministrazione democratica decide di ritardare il ritiro delle truppe dal 1° maggio all’11 settembre, data scelta non a caso. Questo messaggio non piacque ai talebani, instaurando in loro la sfiducia nel Governo americano e la mancata collaborazione prevista dall’accordo. In quel momento erano presenti sul campo tra 2500 e 3500 soldati americani.

Nel luglio 2021, Biden annuncia il ritiro totale delle truppe entro il 31 agosto. Dopo un mese e mezzo, i talebani conquistano Kabul.

Tra evacuazioni di emergenza e caos dilagato all’aeroporto di Kabul, il 26 agosto un attentatore suicida dell’ISIS-K uccide 13 soldati americani e 170 afghani al cancello Abbey Gate.

Le truppe americane si ritirano ufficialmente il 30 agosto 2021.

La guerra in Afghanistan è un nodo contorto e mai districato, che probabilmente non vedrà mai la luce. Ciò che è certo, è che la colpa di quanto accaduto è una storia tutta americana, a prescindere dal partito.

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