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La squadra olimpica dei Rifugiati tra opportunità e opportunismo

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Carla Gagliardini, Bio correndo, 29 agosto 2024
Per la terza volta consecutiva alle Olimpiadi ha partecipato una squadra particolare che si chiama Refugee Olympic Team. Prima apparizione a Rio 2016, poi Tokyo 2020 e adesso Parigi 2024.
Si tratta di un piccolo gruppo di atleti, trentasette, rispetto alla moltitudine delle persone rifugiate sparse per il mondo. Secondo le statistiche dell’UNHCR, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, alla fine del 2023 il numero degli sfollati forzati nel mondo era di 117.300.000, di cui 37.600.000 rifugiati, ossia persone a cui è già stato conferito questo status, 6.900.000 in attesa di una decisione da parte degli Stati che li accolgono, 68.300.000 sfollati interni e infine 5.800.000 persone in stato di bisogno che necessitano protezione internazionale.
Chissà quante persone avranno applaudito l’UNHCR per aver messo in piedi una squadra di rifugiati e il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) per averle permesso di partecipare ai giochi.

Un’occasione piena di contraddizioni

Premesso che la Refugee Olympic Team è certamente un’occasione meravigliosa per chi ha la fortuna di farne parte, tuttavia alcune contraddizioni si vedono all’orizzonte. Uno degli obiettivi della Refugee Team, oltre a quello di garantire la pratica sportiva ai giovani rifugiati, è di comunicare al mondo la dimensione e la tragicità del problema.
Ma perché esistono gli sfollati, quindi anche i rifugiati? La risposta è semplice anche se cruenta: gli sfollati esistono perché esistono le guerre, i cambiamenti climatici e le persecuzioni di ogni genere. Mentre alcuni scappano da persecuzioni personali, la maggioranza lascia la propria terra per cercare di sopravvivere a un conflitto o a carestie, siccità, inondazioni.
Viene alla ribalta la prima contraddizione, ossia molti degli Stati che sono membri dell’UNHCR e del CIO sono gli stessi che con le loro politiche criminali o di distruzione dei territori e dell’ambiente creano gli sfollati.
Passiamo alla contraddizione successiva: con la Refugee Team si vuole portare all’attenzione dell’opinione pubblica, attraverso lo sport, il dramma che colpisce milioni di esseri umani. Gli Stati che siedono alle Nazioni Unite, da cui deriva l’UNHCR, devono mettersi d’accordo con se stessi perché di rifugiati e sfollati si parla, anzi, in alcuni periodi non si è parlato d’altro. Come dimenticare la campagna della Lega e i decreti Salvini di criminalizzazione degli immigrati, soprattutto di quelli che arrivano sulle nostre coste con barconi fatiscenti o gommoni! Però, come nel romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, questi Paesi vivono uno sdoppiamento della personalità, così quando votano le politiche che riguardano le persone rappresentate dalla Refugee Team erigono muri, finanziano governi corrotti che torturano, sequestrano, violentano, riducono in schiavitù uomini, donne e adolescenti che scappano da contesti difficili, ma quando cavalcano lo spirito olimpico, con sorrisi a favore di fotografi e telecamere, aprono i loro cuori. Suona un po’ ipocrita.
Ancora una contraddizione merita di essere citata. La ventunenne afghana Manizha Talash, che ha partecipato ai Giochi olimpici appena conclusi nella disciplina della breakdance, è stata squalificata per aver mostrato, al termine della sua prestazione, un foulard con la scritta “Free Afghan Women”. Il punto n. 6 dei principi fondamentali della Carta olimpica sancisce che “Il Movimento Olimpico ha come scopo di contribuire alla costruzione di un mondo migliore e più pacifico educando la gioventù per mezzo dello sport, praticato senza discriminazioni di alcun genere e nello spirito olimpico, che esige mutua comprensione, spirito di amicizia, solidarietà e fair-play”. Ora, come possa mancare di rispetto allo spirito olimpico un messaggio di libertà e di solidarietà verso le donne afghane che giorno dopo giorno vedono ridursi i loro già limitati diritti, proprio come successo la settimana scorsa con un’ulteriore stretta, è cosa difficile da sostenere. Dai pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos nessun passo è stato fatto in avanti. Il messaggio di Talash Manizha è stato considerato politico e quindi meritevole di sanzione. Forse non è politica anche la scelta di escludere dai Giochi la Russia che ha invaso l’Ucraina e invece chiudere un occhio, anzi tutti e due, davanti a Israele che sta commettendo un genocidio a Gaza e occupa la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, in barba a tutte le risoluzioni dell’ONU, ma presente ai Giochi? Ma in fondo, non è anche una scelta politica quella di includere la Refugee Team alle Olimpiadi? Se ne deduce che secondo alcuni la politica la possono fare i grandi ma non i piccoli; questi possono solo partecipare ma sono pregati di non disturbare e di limitarsi alla prestazione sportiva. Evidentemente il pensiero non si concilia con lo spirito sportivo olimpico e per chi ne possiede uno, guai a lui o a lei se osa esprimerlo. Strano concetto di libertà e strano insegnamento.

Non mettere il bavaglio ai popoli

Se le Olimpiadi servono a mettere la testa sotto la sabbia per fingere che non esista un mondo in guerra e regalarsi un mese di gioie olimpiche spensierate, cancellando la brutalità di Stati che uccidono, affamano, fanno morire lentamente milioni di persone e creano decine e decine di milioni di sfollati, alcuni dei quali vedremo nelle prossime Refugee Team, allora sì che lo spirito olimpico viene tradito e si riduce a un’avvilente retorica.
“Stand Up With Afghan Women!” è lo slogan che nel 2022 ha lanciato una campagna, nata dalla collaborazione tra Cisda, RAWA, Hambastagi e Large Movements nell’ambito della rete di Coalizione euro-afghana per la democrazia e la laicità, culminata con una petizione incentrata su quattro obiettivi, che le attiviste in Afghanistan dichiarano essere irremovibili, se si vuole realmente aiutarle: non riconoscimento del Governo dei Talebani; autodeterminazione del popolo afghano; riconoscimento politico delle forze afghane progressiste e messa al bando di personaggi politici legati ai partiti fondamentalisti; monitoraggio sul rispetto dei diritti umani.
Le Olimpiadi che mettono il bavaglio alle storie dei popoli, obbligando a spegnere per un mese il cervello e i riflettori, già deboli, sulle tragedie che affliggono molte società, le quali hanno disperatamente bisogno di visibilità per non cadere nell’oblio e nella solitudine, rischiano di essere solo un evento competitivo esclusivo ad alto livello che muove interessi economici, ma non certo quel costruttivo incontro di culture che lo sport può agevolare e che la Carta Olimpica descrive nei suoi principi fondamentali.

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