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Afghanistan: “No burqas behind bars”

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Osservatorioiraq – 24.03.2013 di Maria Letizia Perugini

Vincitore del premio speciale della giuria al Festival del cinema sui diritti umani di Parigi, “No burqas behind bars” racconta le storie di diverse detenute afghane, e di come la società tenga ancora in scacco le sue donne, impugnando contro di loro “la morale”.

Dopo Love Crimes of Kabul, ecco un altro documentario che offre uno scorcio particolare sulla vita delle donne afghane: anche le voci delle protagoniste di questa intervista corale arrivano da una prigione.

 Si chiama “No burqas behind bars”, e racconta la vita e le storie di donne detenute nel carcere di Takhâr, a nord di Kabul, spesso con dei bambini nati dietro le sbarre. I reati per i quali sono state condannate sono per la maggior parte delitti contro la ‘morale’: 10, 15, 16 anni di carcere per aver tentato di fuggire dalle violenze del focolare domestico.
Donne vendute bambine a uomini con il triplo della loro età, condannate a subire trattamenti inumani, che hanno cercato una via di fuga e per questo sono state punite.
O anche donne che, coraggiosamente, hanno seguito il cuore, fuggite perché innamorate di qualcuno che non era l’uomo a cui la famiglia le aveva destinate.

Sono queste alcune delle storie che i due registi iraniano-svedesi, Nima Sarvestani e Maryam Ebrahimi, hanno raccolto dalle voci dirette delle protagoniste. Sono serviti due mesi di contrattazioni con le autorità locali per riuscire ad ottenere la possibilità di entrare nella prigione con una telecamera.
Qui, i detenuti sono più di 500, le donne quaranta. La prima cosa che sorprende è la possibilità di vedere i loro volti. Solcano l’ingresso del carcere con il tradizionale velo azzurro e le manette ai polsi, poi si spogliano di ogni ‘protezione’.

Si possono vedere i loro vestiti colorati e i tratti delicati. Ma guardandole negli occhi, è impossibile non notare quell’amarezza.
Ballano, nei pochi momenti di tranquillità e quotidianità al femminile, ma rabbia e frustrazione le portano a scagliarsi l’una contro l’altra, per un pezzo di carne o per un furto di soldi. Perchè la vita del carcere è dura. E nonostante questo, a volte sembra che si considerino quasi “fortunate”, per avere un luogo dove stare: la prigione diventa ‘protezione’ dinnanzi all’indifferenza di una società che le respinge.

“Sono scappata da casa perché mio marito voleva uccidermi, dove sarei potuta andare con i miei sei figli?”.

Sima deve scontare 15 anni di prigione per essere fuggita dall’abbraccio mortale di un uomo violento: “Mi copriva la testa, legandomi mani e piedi, per poi picchiarmi con un cavo”. Per capire cosa potrebbe accadere dopo la lunga perentesi carceraria, basta ascoltare le parole del marito di Sima, quando la va a trovare in carcere, insieme a uno dei bambini, ma solo per ricordarle il suo errore, per assicurarsi che non lo ripeterà e per rivendicarne ancora il possesso.

Un’altra testimonianza drammatica è quella di Nadjibeh che, scappata dal padre dei suoi figli quando era incinta di due mesi, ha partorito in carcere.

Ma non sempre le donne riescono a tenere con sé i propri bamibini, anche perché li devono nutrire, e non è sempre facile trovare i soldi. Ed è proprio per questo che alla fine Nadjibeh è costretta a vendere suo figlio, non ha di che alimentarlo.
Per i due registi, il lavoro necessario per la realizzazione di questi 70 minuti di girato, è iniziato molti anni fa. Maryam Ebrahimi si occupa del tema dal 2008, e ha già realizzato un documentario, “I was worth fifty sheep”, sui pochi centri di accoglienza presenti in Afghanistan per le donne che fuggono dai mariti.

Con questo nuovo film, però, ha voluto indagare su tutte quelle donne, la maggioranza, che non hanno la fortuna di essere accolte e che vengono condannate al carcere.
Per i crimini morali resta infatti valido il codice penale del 1976, tuttora in vigore, in quanto le riforme legislative introdotte con la Costituzione del 2004 non sembrano avere segnato un cambiamento di rotta.

 

24 marzo 2013

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