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L’intervistaTre anni dalla caduta di Kabul: «Fra violenze e abusi, le donne afghane continuano a lottare»

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Corriere del Ticino, di Giacomo Butti

Cristiana Cella, giornalista italiana e membro del direttivo dell’associazione CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), ci parla della situazione in Afghanistan, dal 15 agosto del 2021 sotto il completo controllo dei talebani – «Qui i delitti contro le donne non sono più reato, ma la ribellione non si è spenta»

«Da adulto ho pianto due volte: alla morte di mia madre e alla caduta di Kabul». Così, a fine 2022, Nasir Ahmad Andisha, ambasciatore e rappresentante permanente dell’Afghanistan alla sede ONU di Ginevra, riassumeva per il Corriere del Ticino le emozioni provate un anno prima. Di stanza in Svizzera, il diplomatico aveva assistito, impotente, alla fine di un fragile sogno, quello di una Repubblica afghana, indipendente e sovrana. Era il 15 agosto 2021: a pochi mesi dall’avvio del ritiro delle truppe statunitensi, le forze talebane tornavano a respirare, a pieni polmoni, l’aria della capitale. Una riconquista lampo, da parte del gruppo fondamentalista islamico, in grado di spazzare via venti anni di storia. Un periodo contrassegnato, sì, dall’intervento americano. Ma anche dai (seppur traballanti) passi avanti compiuti in materia di diritti umani, per la popolazione femminile in primis.

Quel 15 agosto, appunto, tutto è stato cancellato. Chi ha potuto è scappato. Per gli altri, le altre, è cominciato un incubo. In occasione del terzo anniversario dalla caduta di Kabul, parliamo con Cristiana Cella – giornalista italiana e membro dell’associazione CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) – che dagli anni Ottanta documenta il tragico vissuto del popolo afghano.
Presa sulla giustizia
Dalla sanità all’educazione, tutto è stato raso al suolo dai talebani – letteralmente, “studenti” in lingua pashtu – nel giro di pochi giorni dall’ascesa. E a pagare il prezzo più alto sono state le donne, vittime di un pensiero, quello talebano, che ne vuole azzerare ogni diritto. È allora nell’amministrazione della giustizia, probabilmente, che l’imposizione del gruppo islamista ha causato le più terribili conseguenze. Ma non bisogna farsi illusioni: «La giustizia per le donne afghane è sempre stata una chimera. Anche nei vent’anni passati – ci spiega Cella – ottenerla per le violenze e gli abusi subiti dalle donne era estremamente difficile». Eppure, alcune linee di difesa avevano cominciato a sbocciare: «C’erano avvocati e associazioni che gestivano centri legali. E poi rifugi, case protette». Tutto questo, ormai, non c’è più. «I talebani hanno smantellato l’impianto giuridico. Giudici e avvocati oggi non possono fare altro che cercare di salvarsi la pelle perché sono tra i cittadini più nel mirino del gruppo fondamentalista».

I delitti contro le donne non sono più reato

E cosa è rimasto? «Nient’altro che la sharia e l’interpretazione che ne danno i mullah». Tradotto: «I talebani fanno ciò che vogliono. E i delitti contro le donne non sono più reato». Sotto una totalitaria sharia, le punizioni riguardanti il crimine di zina – termine con il quale ci si riferisce a un rapporto sessuale illecito, in genere l’adulterio – hanno subito un’impennata. «È una mannaia sospesa sulla testa delle donne da molto tempo, ora però libera di agire senza freni. Fustigazione e lapidazioni, fino all’uccisione, sono le punizioni per chi commette zina. Ma zina non è solo l’adulterio nel senso stretto del termine, quasi impossibile oggigiorno visto che le donne sono segregate in casa e controllate a vista. Zina è la fuga da un marito violento. Zina è parlare con il vicino di casa. Zina è una storia d’amore non approvata dal padre. Zina riguarda ogni forma di ribellione, ed è uno stravolgimento completo di tutto ciò che riguarda non solo i diritti delle donne, ma i diritti umani in sé».

Con la polizia morale che pattuglia città e villaggi, alle donne afghane basta non essere vestite secondo i dettami talebani o non essere accompagnate dal mahram, il guardiano maschio, per essere fustigate o, peggio, portate in prigione. «Chi finisce in carcere, non sempre ritorna. E chi ritorna finisce per subire lo stigma dell’arresto per crimini morali, e il conseguente ostracismo». Un controsenso, penserà qualcuno, per una popolazione vessata dai talebani. Non proprio, ci spiega Cella. Metà del Paese ha vissuto sotto il giogo degli studenti coranici anche nel ventennio della presenza statunitense: per loro, il ritiro americano non ha portato alcuna differenza. Chi viveva nei territori della “Repubblica”, invece, la differenza l’ha vissuta eccome, ma qualcuno ha riabbracciato volentieri gli studenti e i loro dettami, vuoi per proprie credenze, vuoi per antipatia maturata nei confronti degli americani, per interessi economici (non pochi gli affari intessuti dai talebani) o per odio verso la giustizia repubblicana, che seppur decisamente più liberale, «era lenta, corrotta e quindi costosa», spiega la giornalista.

In assenza di una società unita e solidale, le vittime delle violenze talebane sono migliaia e migliaia. Secondo il rapporto pubblicato mercoledì da Rawadari, organizzazione afghana per i diritti umani, dal 2021 a oggi sono state documentate 9.276 violazioni dei diritti umani: 4.737 delle quali riguardavano, con le esecuzioni extragiudiziali messe in atto dai talebani, violazioni del diritto stesso alla vita. Ma non sono, garantisce Cella, che una minima parte di quanto subito dalla popolazione afghana: «Alcune persone spariscono e basta».
Apartheid di genere

Non stupisce, allora, che la paura – soprattutto fra la popolazione femminile – sia forte. «Paura, paura di muoversi, paura di lavorare e studiare. Una prigionia che ha causato un forte aumento delle malattie mentali e dei suicidi. È una situazione allucinante». Cristiana Cella punta il dito contro l’ONU. «UNAMA, la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, sta lavorando a pieno ritmo per portare rapporti e raccomandazioni sul tavolo ONU, denunciando tutto ciò che stiamo raccontando ora». Il problema è dall’altro lato. «Pur con queste informazioni, fra fine giugno e inizio luglio 2024 i vertici dell’ONU convocano la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan, ndr), e cosa fanno? Accettano l’imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit». I talebani hanno dunque potuto presentarsi in modo ufficiale all’incontro, «il che ha portato a una sorta di riconoscimento. Si è creata, insomma, una divisione fra chi lavora sul campo – e fa un lavoro giusto – e chi, negli ambienti diplomatici, accetta questi compromessi. Un tradimento non da poco».

In Afghanistan si pratica un apartheid di genere

Intanto, UNAMA lavora per definire l’Afghanistan uno Stato dove si pratica un “apartheid di genere”: «È un’espressione non ancora codificata nel codice internazionale, ma si spera che lo sia presto perché questo vero e proprio apartheid possa essere condannato da un tribunale superiore».

C’è frustrazione nella voce di Cristiana Cella. «Qualcosa deve essere fatto, anche fosse, solamente, una condanna simbolica. C’è bisogno di una reazione. Così sembra semplicemente che il Paese sia stato consegnato ai talebani, dicendo loro “fatene quel che vi pare”».

Senza il sostegno internazionale, per la popolazione afghana la situazione può solo peggiorare, lo dimostra l’andamento di questi tre anni. «Nello scorso mese di marzo, il leader supremo talebano Hibatullah Akhundzada ha annunciato che le punizioni corporali, comprese la fustigazione pubblica e la lapidazione, sono strumenti di legge e verranno obbligatoriamente applicati in tutto l’Afghanistan». E diffondere le notizie di queste violenze diventa sempre più difficile. «Nei primi mesi dal rientro a Kabul, i talebani erano ancora titubanti. Con gli anni, il loro controllo sulla popolazione, grazie anche a una maggior presa sulla telecomunicazione e sull’accesso a Internet, è divenuto ossessivo». I media locali sono stati completamente zittiti dai talebani. «Rimangono solo i social, anche se, pure lì, il controllo è molto forte: in alcune zone i cellulari sono completamente vietati».

La ribellione nello studio

Paradossalmente – ma solo da un punto di vista etimologico –, una delle forme di ribellione più forti contro il potere degli “studenti” talebani rimane lo studio. «Le donne che noi di CISDA sosteniamo, appartenenti ad associazioni locali, continuano a ideare stratagemmi per permettere alle ragazze di aggirare il controllo talebano. Esistono, quindi, scuole segrete nelle quali le giovani studiano con il Corano a portata di mano», nella speranza – ci racconta Cella – di riuscire a mascherare l’atto illegale con la lettura del testo sacro, nel caso dovessero essere scoperte. «Si tratta, ovviamente, di situazioni molto pericolose. Ma in Afghanistan ormai qualsiasi attività è pericolosa e le donne insistono affinché quella piccola scintilla di speranza rimanga viva».

Secondo i talebani, ai ragazzi, maschi e femmine, basta essere inviati nella madrasa, la scuola dove «non imparano altro che a leggere il Corano in arabo, una lingua che, peraltro, non parlano. Che futuro può avere un Paese dove non c’è una classe dirigente e dove nessuno studia? È un futuro spaventoso non solo per le donne, ma per un intero Paese».

Fra scuole, aiuto sanitario alle vittime dei recenti terremoti e alluvioni, corsi di cucito, le donne di RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan) e di simili gruppi hanno intessuto una rete clandestina di sostegno alla popolazione. Tempo fa, ci racconta Cella, RAWA – che mantiene i contatti e una stretta collaborazione con l’italiana CISDA – «ha addirittura tenuto una cerimonia dei diplomi, in condizioni commoventi». La giornalista ci racconta poi la storia di Manizha, una delle ragazze iscritte alle scuole clandestine: «Un giorno non si è presentata e nemmeno quello seguente. Le associazioni locali hanno fatto di tutto, insieme alla madre, per trovarla. Ma era sparita. Non sappiamo più niente di lei». È tramite il contatto diretto con RAWA che «capiamo i rischi e il coraggio estremo di chi, pur davanti a simili difficoltà, va avanti».

CISDA, da parte sua, lancia ciclicamente raccolte fondi per finanziare le associazioni attive sul posto: «Sosteniamo RAWA e gli altri gruppi. Abbiamo ad esempio finanziato la creazione di un ospedale mobile – un camion attrezzato che va di villaggio in villaggio –, così come quella delle scuole segrete e di altri corsi utili alle donne». Ma far arrivare i soldi ai destinatari senza che vengano intercettati dai talebani è una sfida. «I fondi vengono inviati con grandi difficoltà», ammette Cella. «Dobbiamo cambiare spesso sistema per aggirare i controlli talebani. Però, in qualche modo, riusciamo sempre a far avere questo aiuto. Dobbiamo farlo: per mandare avanti questi progetti servono soldi».

Le prospettive future, comunque, appaiono buie. Di tanto in tanto, e superando enormi scogli, «alcune donne riescono ancora a fuggire dall’Afghanistan», conclude Cella. «Spesso sono ingegneri e dottoresse, persone con un percorso. Ma mi chiedo che ne sarà delle ragazze che rimangono».

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