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Addio papaveri, i nuovi talebani puntano sulla metanfetamina

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La Stampa, 13 marzo 2023, Domenico Quirico coltivazione oppi

Coltivazione vietata per la seconda volta. Durante il protettorato Usa la droga era il 10% del Pil

Dal 2021, quando gli Stati Uniti decisero che l’Afghanistan non faceva più parte dei loro “interessi’’, è come se una fitta nebbia fosse calata tra il mondo conosciuto e gli abitanti dal Paese tornato talebano. Tendere la mano verso di loro è come tenderla nella nebbia.

Ci si accontenta di flebili segnali, messaggi in bottiglia da un colossale disastro a cui solo la nostra tirchieria di rimorsi, dura come la corazza del coccodrillo, riesce a renderci indifferenti. Eppure gli sbirri di dio, subdoli e sguaiati, messi al bando dalla comunità internazionale (ormai entità mitologica come l’olimpo di Omero) continuano a far funzionare la macchina fanatica perfettamente organizzata per raggiungere i loro fini. Ovvero tenere il Potere.

Prendiamo l’oppio. Ecco, si apre il serraglio: perché non si deve mai dimenticare, parlandone, che tutto avviene in un Paese, talebano o non talebano, in cui il novanta per cento della popolazione vive con due dollari al giorno. In tutto il groviglio polimorfo di una storia millenaria solo una volta la micidiale ma redditizia produzione è scesa quasi a zero.

Era il luglio del 2000 e, si arrossisce a dirlo, al potere c’erano i talebani, quelli della prima ora, ancora devoti apostoli del mullah Omar, il socio di Bin Laden. Una fatwa del Comandante dei credenti proibì la coltivazione del papavero da cui si ricava l’oppio. Che sarebbe come dire vietar le vigne nella Langa. La semina si fa in autunno e la raccolta in primavera. L’anno dopo la produzione crollò, i contadini, spaventati da atroci rimembranze di massacri campestri, si adeguarono e il prezzo dell’eroina sul mercato mondiale di cui l’Afghanistan era il maggior produttore fece un brusco balzo in avanti. Riempiendo le saccocce di pochissimi e aumentando la disperazione di moltissimi.

Quando gli Stati Uniti e i loro alleati locali in ottobre scatenarono la caccia allo sceicco del terrore e ai suoi imprudenti soci locali la draconiana interdizione non incrementò certo la volontà dei contadini afgani di immolarsi per il regime proibizionista.

I vent’anni del protettorato americano, invece, furono la belle époque dei baroni della droga che erano di casa, e alcuni perfino parenti, dei belanti tirannelli corrotti cui mancava la forza di esser davvero malvagi; messi al potere da Washington per portare il Paese alla democrazia e al mondo moderno. La droga fatturava tra i due e i tre miliardi di dollari l’anno, quasi il 10% del prodotto interno lordo afgano. Le coltivazioni di papavero così dilagavano. Si seminava e si raccoglieva fidando che Allah mandasse piogge e sole al momento giusto. E la Dea, e le nazioni unite, e la piaga del narcotraffico e le campagne per mutare le colture agricole? Si trangugiava tutto. Poiché le tonnellate di miliardi di aiuti allo sviluppo finivano nei conti in banca degli amici a Kabul senza quei soldi come sarebbero sopravvissuti gli afgani parcheggiati nel Medioevo? Insomma per vietare l’oppio ci volevano dei folli di dio…

Nell’aprile del 2022 gran cerimonia a Kabul. Tappeti preziosi, barbe fluenti, stiratissime zimarre da eminenza talebana. Si dà lettura di un decreto della Guida (teoricamente) Suprema Haibatullah Akhundzada: la coltivazione del papavero è vietata in tutto il Paese, la droga è un peccato contro dio.

I contadini afgani avevano appena iniziato il raccolto e stralunarono. Fino ad allora, senza mescolarsi troppo, gli zeloti con il kalashnikov tornati padroni di casa avevano con gusto raccolto la tassa di mammona, con cui tiravano avanti e compravano armi. Poiché gli affari sono affari la notizia fece balzare il prezzo dell’oppio al chilo da 116 dollari a 203. I contadini sparsi nei loro trulli di pietra non ne approfittarono: perché, nel frattempo, il costo delle derrate alimentari era aumentato a causa di siccità e sanzioni internazionali del trentacinque per cento! I contadini dovevano decidere che fare in autunno: seminare comunque sperando che l’inurbano vezzo di pestare i piedi ai poveracci anche per i talebani fosse sterile burocrazia puritana? E se invece quei vecchiacci rincagnati e accovacciati facevano sul serio?

Le cifre della produzione del 2023 che segnano un crollo sembrerebbero indicare che la Guida un po’ meno suprema del suo predecessore ha vegliato con pugno di ferro sulla applicazione della misura moralizzatrice. Tanto che i talebani srotolano cifre trionfali della loro lotta alla droga: in un anno seicento peccaminosi laboratori distrutti, seimila arresti, 23 mila tonnellate di schifezze micidiali e di vario tipo date alle fiamme. E esigono fine delle sanzioni e restituzioni dei capitali disinvoltamente prelevati dagli Stati Uniti come rimborso spese per i vent’anni di occupazione democratica.

Dietro le cifre una realtà più sfumata: i nuovi talebani sono semplicemente più astuti dei loro predecessori in turbante. Stanno sostituendo il traffico dell’eroina con quello più “moderno’’ e redditizio della metanfetamina. Da buoni manager hanno rimodellato l’offerta. La pianta da cui si ricava l’efedrina è abbondante in Afghanistan anche se richiede maggior fatica per raccoglierla. Niente suggestivi campi di papavero, bisogna arrampicarsi penosamente sui pendii più impervi delle montagne. Una persona può raccoglierne in un giorno al massimo tra 25 e 45 chili. Per produrre un chilo di anfetamina occorrono 400 chili di materiale essiccato. In compenso si nasconde più facilmente.

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